venerdì 1 maggio 2015

CURATE ARCHIVE – CONTRIBUTO AL BLOG DEL ‘Magic of Persia Contemporary Art Prize’ (MOP CAP)


CURATE ARCHIVE è un programma di residenza on-line rivolto ad artisti / curatori / operatori culturali di tutto il mondo, che si propone di operare come una struttura dialogica che vuole cercare di enunciare le possibilità (e impossibilità) di lavorare con un ‘archivio’. Questo progetto intende fornire una ri-presentazione del suo vasto archivio attraverso una piattaforma online e un approccio curatoriale.
La giovane curatrice Marianna Orlotti, che è stata selezionata per attuare una personale ricerca sul tema “archivio”, mi ha contattata per dare un contributo alla sua indagine attraverso l’analisi del mio lavoro.




OGNI UOMO È UOMO-PIÙ-COSE

Sono cresciuta in un piccolo paese di provincia, in una casa con una corte nella quale vive gran parte della mia famiglia. Le donne della famiglia hanno sempre avuto l’abitudine di incontrarsi più volte al giorno, in appuntamenti che avevano del rituale; in questi incontri femminili gli oggetti, sempre gli stessi, erano i protagonisti: le tazzine, il servizio buono, le sedie fatte dal nonno, il tavolino in marmo, l’innaffiatoio, gli album di fotografie, le vecchie e usate carte dei pacchi regalo, gli strofinacci, …
Nella mia famiglia non si buttava e non si butta via niente, un modo di vivere trasmesso da mio nonno: era un falegname e tutti gli scarti di legno della lavorazione venivano tenuti con la stessa importanza dei pezzi nuovi, lo stesso valeva per i chiodi e le viti usate, o per qualunque cosa che fosse ancora utilizzabile. Ha creato negli anni un deposito da riutilizzare in futuro.
I miei primi lavori sono installazioni con mobili. Indubbiamente l’influenza dell’ambiente familiare è stata decisiva: da bambina avevo il permesso di stare nel laboratorio del nonno, mentre lui costruiva mobili, teche, porte…
Queste prime installazioni si presentavano come stanze invisibili, nella quale i mobili dovevano essere aperti e chiusi dall’osservatore attivo: sono depositi di oggetti di scarto, assemblati per creare scene di una narrazione, come fossero piccoli palcoscenici con personaggi e azioni di una storia.
Poi è cambiato lo spazio di lavoro: da una grande casa di campagna mi sono trasferita in un appartamento di città continuando a lavorare in una piccola stanza. Non era più possibile accumulare oggetti di grandi dimensioni, ed ho quindi iniziato a ricercare prevalentemente carte e immagini, cambiando per forza di cose supporti e soggetti: ai mobili con oggetti assemblati ho preferito il collage, che per sua natura vive di scarti.
Il mio archivio si è ampliato di oggetti più ‘bidimensionali’, come carte, riviste, libri, fotografie; ed è proprio sulla fotografia, in tutte le sue forme (stampe, negativi, diapositive, polaroid, rulluni) che si concentra la mia ricerca attuale.
Ogni fotografia contiene in sé l’idea del documento, perché è testimonianza di un fatto reale; ogni fotografia è indiscutibilmente legata all’esistenza del proprio soggetto; ogni fotografia è quindi una registrazione, un’impronta del tempo, un oggetto d’archivio, l’oggetto d’archivio per antonomasia.

Da circa un paio d’anni raccolgo e colleziono diapositive, immagini che raffigurano scene di vita quotidiana o che testimoniano eventi straordinari di famiglie anonime.
La proiezione di diapositive mi ha sempre affascinato. Credo che questa attrazione derivi nuovamente dal mio vissuto, dalla mia infanzia quando tutta la famiglia si riuniva nel rito della proiezione: il buio, il ritmo, il rumore del proiettore e il suo calore che riempiva la stanza mi portavano letteralmente dentro l’immagine luminosa. Per ciascuna diapositiva proiettata si aggiungeva solitamente un lungo racconto didascalico, e quindi la noia mi aveva portato ad inventare un gioco solitario che consisteva nello spiare quelle grandi immagini luminose come a cercare un particolare intruso o un errore nascosto, difficilissimi da trovare.
Come un gioco, proprio come quando ero bambina, ho iniziato a sovrapporre le diapositive trovate a due a due, scoprendo così nuovi scenari, nuove storie. Le ho semplicemente sommate in una realtà altra, ben diversa da quella che ciascuna diapositiva testimonia.
Si è formata così la serie “Nidificare”.
L’immagine che si forma da questa sovrapposizione è un nuovo scenario che non esiste. A volte non subito è possibile riconoscere la presenza di due differenti immagini sovrapposte; la proiezione e quindi la possibilità di ingrandire molto l’immagine, dà modo di mettere meglio a fuoco ciò che si sta osservando. Si crea così, attraverso la proiezione di immagini vere, una finestra di evasione verso un mondo che non esiste, un’utopia.

Condivido con il collezionista la pratica di ricerca, l’irrequietezza dello sguardo - che cerca di mettere a fuoco in una veloce panoramica un gran numero di cose - l’indagine del passato e la simbiosi che si instaura con gli oggetti. Vado alla ricerca di alcuni particolari oggetti con lo spirito del collezionista, con la puntuale consapevolezza di cosa cercare. La ricerca di questi oggetti costituisce una parte del mio lavoro, e il tempo della ricerca è un fattore rilevante, determina la durata del progetto. Mi ci affido senza forze opposte. L’approccio quasi documentaristico di questa pratica è caratterizzato quindi da una peculiare relazione con l’inatteso, l’imprevedibile e l’incalcolabile.
Questo modo di iniziare la creazione, genera inevitabilmente un accumulo di materiale non indifferente; gran parte del progettare consiste infatti nell’archiviare minuziosamente tutte le immagini e gli oggetti recuperati. Il passaggio dalla pratica collezionistica alla costituzione di un archivio è diretto: le immagini e gli oggetti conservano una certa idea di unicità e autenticità, che risiede nel valore storico, culturale e personale che coordina il rapporto tra passato e presente. Ciò significa non solo che essi tramandano una storia, ma hanno anche un certo grado d’importanza morale nel momento in cui vengono recuperati e reinvestiti di valore.

«(…) cosa contengano quei dossier non è un mistero (…) quel che ci interessa ora è proprio questa distesa di copertine chiuse ed etichettate, e il procedimento mentale che implicano. L’autrice stessa l’ha definito chiaramente: “Cerco di possedere e d’appropriarmi della vita e degli avvenimenti di cui vengo a conoscenza. Per tutta la giornata io sfoglio, raccolgo, metto in ordine, classifico, setaccio, e riduco il tutto nella forma di tanti album da collezione. Queste collezioni diventano allora la mia stessa vita (…)».

Italo Calvino, Collezione di sabbia 

Gli oggetti e le immagini che raccolgo nei mercatini o per strada sono i testimoni di ciò che ha soddisfatto momentaneamente i bisogni o appagato i desideri di chi li ha posseduti prima di me e che, per qualche motivo, sono diventati una sorta di scarto della memoria, un detrito della testimonianza. Rauschemberg disse che il mondo non è altro che un immenso dipinto e che si sentiva molto ricco perché poteva raccogliere per strada i rifiuti approfittando di quello che la giornata gli offriva come materiale con cui lavorare.
Il fattore che mi spinge a volere questi oggetti è l’importanza che hanno avuto in passato, un peso personale e simbolico, fatto di tradizioni, memorie, nostalgia e privato, perché

«(…) ogni uomo è uomo-più-cose, è uomo in quanto si riconosce in un numero di cose, riconosce l’umano investito in cose, il se stesso che ha preso forma di cose (…)».
Italo Calvino, Collezione di sabbia

Alberto Eiguer nel suo libro “L’inconscio della casa” si interroga in merito agli oggetti e ai mobili, circa la loro funzione, la maniera in cui sono disposti all'interno di una casa e i loro spostamenti. Lo spazio domestico viene costruito attraverso il movimento che imponiamo agli oggetti e, quando lo troviamo confortevole e piacevole, è perché ci divertiamo come bambini.
Questo studio dell'”intimo” mi porta a riflettere sulla memoria della vita passata intrinseca in oggetti o fotografie che non mi appartengono.
Mediante la raccolta di oggetti, di reperti materiali ciascuno procede a un’attività di costruzione orientata a trattenere frammenti di vita vissuta, testimonianze personali bloccate nel tempo, ricordi materializzati a cui viene assegnato un valore simbolico. A questo scopo ciascuno conserva piccoli o grandi cimeli che possiedono una personale capacità narrante e che racconteranno in futuro ciò che un tempo è accaduto. La casa diventa così il luogo della memoria storica degli abitanti, è l’archivio di tutto ciò che viene portato dall’esterno e vuole essere conservato. Gli oggetti quotidiani giocano un ruolo significativo, perché c’è un’immediata corrispondenza tra gli oggetti e la vita.

Per logica gli oggetti che si trovano nei mercatini (o abbandonati accanto ai cassonetti) hanno perso, per i motivi più diversi, questo valore: sono diventati scomodi, ingombranti, inutili per chi ha voluto disfarsene.
Attraverso una sorta di gioco narrativo cerco di immaginare i ricordi, gli avvenimenti, le persone legate a questi oggetti: una biografia inventata dell’oggetto che costituisce una mappa con cui si può navigare diversamente il presente. Nonostante l’obsolescenza dei materiali usati, lavoro per il presente, e voglio che il presente dialoghi con il passato; uso il passato per parlare dell’oggi. Secondo Michel Foucault, l’archivio “è il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati” (M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1994). Vale a dire che l’archivio coordina ogni rapporto tra passato e presente.
Raccogliere, conservare, consacrare, interpretare, ordinare, catalogare sono azioni che caratterizzano il mio fare arte, che fanno in modo che l’oggetto del mio archivio possa comunicare e generare.

Ho lavorato per tre anni all'archivio film della Cineteca del Museo Nazionale del Cinema: il mio lavoro consisteva nell’esaminare e catalogare i materiali della collezione. Aprivo le scatole di metallo contenenti le pellicole come se fossero piccoli scrigni di pietre preziose. La parte del lavoro che più mi entusiasmava era catalogare il materiale correlato al film (note scritte da un proiezionista su fogli di recupero, appunti di montaggio, ritagli di riviste o giornali utilizzati per dividere le bobine...) trovato all'interno della scatola: piccoli indizi utili se non si hanno altri dati per identificare il film. Come un investigatore ho interrogato quei ritagli di passato, strettamente legati a quella particolare copia del film: l'apparente mancanza di significato di un piccolo oggetto del privato, la banalità di un pezzo di carta, la marginalità di una nota manoscritta, sono i protagonisti di una storia, la storia di tutti i giorni.
Frammenti, particolari.
Voglio concentrarmi sulle piccole cose, apparentemente insignificanti, testimoni di un particolare momento vissuto, che solo un archivio può considerare. Sono oggetti orfani che diventano, attraverso la loro redenzione, parte di un’esperienza plurale.

Oggi l’archivio classico è in crisi a causa di un gran numero di dati smaterializzati che porta a ridurre l’oggetto archivistico in un codice informatico. Le informazioni vengono ancora raccolte, conservate, interpretate, ma le modalità classiche di archiviazione quali medium tattili stanno diventando obsolete.
La mia ricerca si concentra sulla materialità dell’archivio e sulla nostalgia che ne deriva, sulla memoria collettiva racchiusa in oggetti di vita quotidiana e sul loro continuo mutamento, sul cercare, indagare, scandagliare, scartare, controllare, archiviare per riuscire ad avere un rapporto con il mondo, con le cose.